martedì 24 maggio 2011

Il mio nome è Gustavo (quarta parte)

Quando lei mi aprì timidamente, io, col mio entusiasmo, la travolsi! Cominciai a raccontarle tutto, riversandole, come un fiume in piena, tutte le mie considerazioni e rivelazioni appena avute.
Eleonora non capiva, cercava di fermarmi, di pormi un freno, di capire, ma ero troppo eccitato per ascoltarla. Proseguivo senza neanche rendermi conto di cosa stavo dicendo! Alla fine, quando mi calmai, lei mi disse: "Non ho capito praticamente nulla di quello che mi hai detto...la torta...ti è piaciuta o no?"
Io scoppiai a ridere a questa domanda. Poi le dissi: "Devi sapere una cosa: io, sin dalla nascita, non ho il senso del gusto. No, non ti preoccupare, non è così terribile" la rassicurai, vedendo la sua faccia sconvolta a questa mia rivelazione. "Fino a poco fa, mangiavo di tutto, non potendo assaporare nulla. Quando mi hai dato la tua torta, però, ho cercato un modo per esprimerti un giudizio sincero. Ho così mangiato il tuo dolce facendo attenzione alle sensazioni che provavo, sperimentando così qualcosa di nuovo! Mi sono accorto di cose che avevo sempre percepito ma a cui non avevo mai fatto caso: la consistenza, la forma, l'odore, l'aspetto...e tutto quello che non passa per il gusto! E in questo modo, ho capito una cosa."
"Cosa?" riuscì a chiedere Eleonora che ancora non sapeva se credermi.
"La tua torta non mi è piaciuta tanto. Si sbriciola, ha una forma incerta, l'odore del cacao non è molto intenso, si mastica male e lascia la bocca legata."
"Allora non ti è piaciuta?" mi chiese la ragazza appena le descrissi queste mie sensazioni.
"Sì, ma non è questo il punto! Senza la tua torta non avrei mai scoperto tutto questo! Mi capisci? Posso finalmente dire che una pietanza mi piace e un'altra no! Grazie mille! Voglio sdebitarmi: chiedimi qualsiasi cosa!"
Eh, già! Le dissi proprio così. Non so cosa mi prese in quel momento. Era come se non avessi più alcuna inibizione. Eleonora, però, non condivideva il mio entusiasmo. Non mi credette, infatti, e mi cacciò fuori dal suo appartamento, urlandomi che non c'era bisogno di inventare certe storie assurde per dire he la torta non mi era piaciuta. Cercai di ribattere, ma non me ne diede il tempo, sbattendomi la porta in faccia.
L'eccitazione, lentamente, scemò, fino a lasciarmi una grande amarezza. Avevo l'impressione di aver già perso tutto. Speravo, infatti, che Eleonora mi avesse capito e speravo che potesse essere l'inizio per una conoscenza e, chissà, magari una storia.
In quei giorni, però, non si fece vedere, e le mie speranze sembravano destinate a morire. Passai una settimana lavorando svogliatamente, saltando diverse volte i pasti, buttandomi sul letto senza far nulla.
Un giorno, però, suonò il campanello. In me si riaccese la speranza che fosse lei. Aprii così la porta, ma non vi trovai nessuno. Guardai nel corridoio, ma era vuoto. Finalmente abbassai lo sguardo e vidi una busta.
La raccolsi: non riportava nessun nome. La aprii e vi trovai un breve messaggio di Eleonora. Ero piacevolmente sorpreso! C'era scritto di farmi trovare il giorno dopo a cena in un tal ristorante, vestito elegante, per le otto di sera. Mi stava forse invitando a cena? Forse per chiedermi scusa?
Non riuscivo a capire, però decisi, senza pensarci due volte, di andare all'appuntamento. Iniziò così una lunga attesa fino al giorno successivo. Non stavo più nella pelle! Mi chiedevo che cosa sarebbe successo, che cosa mi aspettava, che cosa mi avrebbe detto. Più ci pensavo, poi, più mi preoccupavo!
Finalmente, dopo un'attesa che mi sembrò interminabile, arrivò la sera. Arrivai là con leggero anticipo. Rimasi fuori dal ristorante ad aspettare. Verso le otto, ancora non si vedeva. Passarono cinque minuti e di Eleonora nessuna traccia. Dieci minuti...quindici e ancora niente. Ero terrorizzato: mi aveva forse preso in giro?
Per fortuna mi sbagliavo e sentii una mano sulla spalla: era lei! "Cosa ci fai qui fuori? Dai, entra: siamo in ritardo!" disse con tono sbrigativo.
"Ah...ma...io..." cominciai a dire per giustificarmi.
"Niente scuse. Muoviti" mi ordinò. Notai in quelle parole una certa rigidità nel tono e nei movimenti, come non fossero spontanei e naturali.
"D'accordo" mi limitai a risponderle, non osando ribattere.
Mi portò dentro il ristorante, facendomi sedere ad un tavolo, al centro del salone, in una tavolata molto lunga, in comune con numerose altre persone. Non capivo perché dovessimo sedere vicino a persone che neanche conoscevamo (o almeno io non conoscevo) e in più in mezzo alla sala, al centro dell'attenzione.
Volevo domandarlo a Eleonora, ma non riuscii a trovare il momento per chiedere nulla, siccome lei cercava in ogni modo di sfuggire al mio sguardo. O guardava dentro la borsetta, o fingeva di guardare il cellulare, o si guardava attorno, o si alzava come se volesse controllare qualcosa, per poi tornare e continuare ad ignorarmi.
Io non potei fare altro che pazientare. Nel frattempo mi chiedevo dove fosse il menù, e mi chiedevo perché nessuno ci venisse a servire. La cosa più strana, però, era l'atmosfera di attesa. Gli occhi erano puntati sul nostro tavolo e tutti aspettavano qualcosa. Ma cosa?

Continua con la conclusione...

domenica 22 maggio 2011

Il mio nome è Gustavo (terza parte)

Andai a sedere in cucina, e scoprii il contenuto del piatto. C'era una fetta di torta al cioccolato. L'aspetto non era dei migliori, lo devo ammettere. Tendeva a sbrciolarsi, e non sembrava ben coesa. Tentai, infatti, di prenderla in mano, ma si staccò in due pezzi. Presi così un cucchiaino.
Raccolsi un pezzo sulla posata e me la avvicinai agli occhi. Il colore non era così intenso come altre torte al cioccolato che avevo visto. "Forse non ha messo abbastanza cacao", pensai.
Poi, misi in bocca il cucchiaino e cominciai a masticare. La consistenza era davvero particolare. Tendeva a sbriciolarsi, dando poca soddisfazione: non la si riusciva, infatti, a masticare, perché tendeva a infilarsi tra i denti. Oltretutto, mi trovai con la bocca leggermente impastata, per cui la lingua non riusciva a scorrere sui denti, che sembravano diventati ruvidi.
Continuai comunque a mangiarla. Più andavo avanti, però, più mi convincevo che c'era qualcosa che non andava. Sia chiaro: non che la torta non mi piacesse, però mi rendevo conto che non era all'altezza di un cuoco. La consistenza e la forma erano imperfette. Non avendo mai potuto gustare qualcosa, avevo sempre concentrato le mie sensazioni su quegli aspetti che riuscivo a cogliere, coma la facilità con cui si mastica qualcosa, il modo in cui lo si mastica, le condizioni in cui rimane la bocca dopo aver ingoiato il boccone, e aspetti di questo genere.
Erano tutte cose di cui non avevo mai parlato a nessuno, o su cui non avevo mai neanche riflettuto. In quel momento, però, nel momento in cui mi era stato chiesto un giudizio, mi trovai a capire tutto questo. Mangiando quella torta mi si aprì un mondo. Ripensai a tanti cibi che avevo provato, a tanti piatti che mi avevano offerto o preparato: in quel momento riuscii a ricordare le sensazioni più volte sperimentate, riuscendo a rendermi conto di una verità che mi suonava realmente incredibile. Io avevo sempre gustato il cibo.
Non come fanno le altre persone, ma lo gustavo nei suoi aspetti più nascosti e meno evidenti, quelli a cui nessuno fa mai caso. Quelli che vengono oscurati proprio da gusto così forte, dal dolce, dal salato, dall'amaro. Io stavo riscoprendo lì, in quel momento, con quella torta, la mia possibilità di essere completo, come tutti. Se anche io stavo assaporando e gustando quella torta, allora non ero poi così diverso da chi si definisce "completo".
Finalmente, dopo anni in cui non avevo mai espresso nessun vero giudizio su ciò che mangiavo, mi sentivo legittimato a dire la mia opinione e ad esprimere una mia preferenza. Finalmente potei esclamare: "Questa torta non mi piace!"
La gioia di quella rivelazione, per me così incredibile, mi donò un'energia mai provata prima. Andai ad aprire il frigo, e cominciai a mangiare qualsiasi cosa che mi capitasse sotto mano. Presi un pezzo di formaggio e ne apprezzai la morbidezza, la consistenza delicata. Mangiai una fetta di prosciutto crudo, godendo della lieve resistenza che la fetta opponeva ai miei morsi. Provai della pasta avanzate e rimasi deluso dalla consistenza leggermente gommosa e dalla durezza che avevano assunto.
Proseguii in questo modo, assaggiando un po' di tutto, realizzando che cosa mi piaceva davvero e cosa no. Col tempo, poi, iniziai a prestare più attenzione anche agli aromi, alla fragranza e all'odore delle diversi pietanze. Scoprii aromi pungenti che sembravano risalire il naso fino alla testa, aromi lievi, quasi impercettibili e aromi delicati, quasi calcolati.
Mi sentivo veramente rinato! Ero un uomo nuovo. Quel peso che per così tanto tempo avevo cercato di nascondere, di negare, di non accettare nelle sue conseguenze, finalmente me era stato tolto! E il merito era tutto di quella torta. Presi il piatto con quel po' di dolce rimasto e uscii di casa, andando a bussare all'appartamento di Eleonora.

Continua...

venerdì 20 maggio 2011

Il mio nome è Gustavo (seconda parte)

Era una mia vicina di casa. Aveva più o meno la mia età (scoprii in seguito che aveva due anni in meno di me). Si chiamava Eleonora. Bussò un giorno alla mia porta. Al vedermela lì, rimasi folgorato! Portava un grembiule da cucina, e aveva i capelli un po' arruffati, probabilmente dal calore dei fornelli su cui stava cucinando. I suoi capelli rossi mi colpirono: sembrava quasi un cespuglio! E non lo dico in senso negativo, sia chiaro, anzi! Mi piacevano così "al naturale". Anche il suo volto, un po' sudato dal calore della giornata e della cucina le dava davvero un senso di spontaneità.
Ricordo che la guardai con stupore, senza dire una parola. Non capivo che cosa volesse, e perché avesse bussato alla mia porta. Fu lei ad interrompere il silenzio.
"Posso...posso chiederti un favore?" mi chiese senza guardarmi in faccia, forse per vergogna.
"Sì...sì, dimmi" le risposi.
"Vedi...sto studiando per diventare cuoca...solo che..." cominciò.
"Che?" la esortai.
"Non ho nessuno a cui chiedere di provare ciò che preparo...quindi...mi chiedevo...se...ecco...tu...".
"Io...cosa?" chiesi, continuando a non capire.
"Potresti assaggiare quello che ho preparato?" disse prendendo coraggio, mostrandomi un piatto che teneva in mano, che prima non avevo notato.
"Come?" domandai.
"Non ti va? Non hai fame? Se vuoi te lo lascio, poi mi sai dire...non devi per forza mangiarlo subito".
"Beh...ecco..." cominciai a dire, non sapendo come continuare e come farle sapere che non avrei mai potuto gustare il suo piatto.
"Se non lo vuoi provare non c'è problema..." disse con un tono deluso. "Scusa se ti ho disturbato." Eleonora si voltò e cominciò a tornare verso il suo appartamento.
Non so cosa mi prese in quel momento, però, quasi d'istinto, le urlai: "No, aspetta! Lasciami il piatto, lo assaggerò!"
La ragazza mi guardò raggiante, finalmente negli occhi, mostrandomi uno sguardo davvero caloroso. Mi porse il piatto, diventando tutta rossa, riuscendo a borbottare un "grazie", per poi correre subito in casa sua.
Mi trovai così col piatto in mano, sulla porta di casa mia, con il compito di assaggiare un cibo che non avrei mai potuto gustare. Rientrai, pensando ad un modo per non deludere la ragazza.
Inizialmente mi venne l'idea di chiamare i miei e chiedere a loro di assaggiare il piatto, così da avere un'opinione da riferire. Scartai subito l'idea, però. Mi sembrava ingiusto affidare a qualcun altro una cosa che era stata chiesta a me personalmente.
In un secondo momento pensai di fingere. Di elogiare il piatto, il suo sapore, magari ispirandomi ad internet, da qualche recensione. In fondo non sarebbe stato così difficile inventarsi un giudizio. Dopo poco, però, scartai anche questa possibilità. Se il piatto cucinato non era buono? Avrebbe subito capito che mentivo, dando così una pessima immagine di me.
Arrivai così alla terza ipotesi: dirle la verità, e farle sapere che non avevo il gusto. Così avrebbe capito. A quel punto, però, forse non avrebbe più bussato alla mia porta. In quel momento, infatti, questa idea mi tormentava. Volevo già rivederla, e speravo di poter parlare un'altra volta con lei, magari non più sulla porta, ma seduti.
Sommerso nei miei dubbi, presi una decisione. Pensai che era inutile arrovellarsi in quel modo, così mi dissi che era meglio agire: avrei intanto mangiato il suo piatto. Poi avrei cercato una soluzione.

Continua...

martedì 17 maggio 2011

Il mio nome è Gustavo (prima parte)

Il mio nome è Gustavo. Ironia della sorte! Se i miei genitori avessero saputo, avrebbero sicuramente scelto un altro nome. Infatti, sin dalla nascita, ho un terribile difetto: non possiedo il senso del gusto. Capirete che è una situazione davvero strana. Prima di accorgersene, i miei genitori ci hanno messo davvero tanto. Finché ero piccolo non potevo parlare o esprimere nulla. Mangiavo sempre di tutto e non mi lamentavo mai. Mia mamma diceva sempre che ero un bravissimo bambino.
Un giorno, però, mi vide in giardino: stavo mangiando dell'erba e del fango. Li masticavo e li ingoiavo tranquillamente, senza sentire nessun sapore, né dolce, né amaro. La mamma quel giorno mi sgridò duramente, intimandomi di non farlo mai più. Io, però, piccolo com'ero, non l'ascoltai e mi trovai altre volte in giardino a mangiare ciò che mi capitava sotto mano. Mia mamma, allora, molto preoccupata di questo mio comportamente, mi portò da un dottore, descrivendogli la situazione. Fui così visitato, e dopo lunghe analisi, ebbero la terribile risposta. Non avevo il gusto!
Ora penserete che dev'essere una sensazione terribile non poter gustare il dolce, il salato o l'amaro. In realtà, per me che non ho mai provato cosa voglia dire gustare qualcosa, non è mai stato un vero problema. Innanzitutto, per fortuna, è un mio difetto che si nasconde facilmente. Infatti nessuno, guardandomi in faccia, può prendermi in giro dicendomi: "Tu non hai il gusto!". Al massimo mi guardavano e mi dicevano che avevo il naso grosso, cosa che mi ha sempre dato molto fastidio.
In ogni caso l'assenza di gusto mi ha sempre permesso di mangiare ogni cosa. Se avevo fame, mangiavo, dolce o salato che fosse. Se non avevo fame, invece, non toccavo cibo. Qualunque cosa fosse commestibile, per me andava bene!
Da piccolo, poi, ho sempre saputo trarre vantaggio da questa mia mancanza. Infatti, senza far sapere a nessuno che mi mancava il gusto, proponevo strane scommesse ai miei compagni. Ad esempio, ricordo una scommessa in particolare. Scommisi con un compagno che avrei mangiato insieme un po' del primo, del secondo e del dolce, in un solo boccone! Ricordo che in mensa, quel giorno, c'era risotto alla milanese, con lo zafferano, hamburger, purè e crostata di prugne. Io, disinvolto, mischiai le tre portate e mangiai tranquillamente, sorridendo alle facce schifate ed esterrefatte dei miei compagni. In particolare ricordo la faccia arrabbiata, delusa e stupita del mio amico che aveva scommesso le sue figurine. Dopo quella vittoria riuscii a completare il mio album dei calciatori!
In casa, però, questo mio difetto si rivelava un vero e proprio peso. Mia mamma e mio papà vivevano in un costante disagio. Ogni volta che mangiavamo insieme dovevano trattenersi da ogni tipo di commento. Il massimo che potevano concedersi erano gli apprezzamenti sul profumo. Per il resto, però, non volevano mai dire nulla che ricordasse la mia mancanza.
Io, però, per infastidirli, mi divertivo a prenderli in giro, facendo battute come: "Mh! Senti che bontà questa pasta! Un sapore davvero sublime!". Mia mamma andava su tutte le furie! Sembrava quasi che fosse lei a non avere il gusto!
Crescendo, poi, ho imparato a trattenermi e a non infastidirla più. Appena possibile, poi, ho cercato una casa in cui stare, così da non vivere più il disagio di questi pasti silenziosi e imbarazzati.
Ricordo che, quando ancora vivevo con i miei, ci fu un periodo in cui ebbi l'idea di fare il cuoco! Ero stato ispirato dalla figura di Beethoven. Se lui era un genio della musica ed era sordo, io sarei stato un genio ai fornelli! In realtà...ero un vero disastro! Non riuscivo mai a dosare le giuste quantità e a creare l'equilibrio tra le pietanze. Fui molto frustrato per questo, ma presto mi passò, insieme all'idea fissa di fare il cuoco.
Finiti i miei studi, trovai un lavoro che non c'entrava nulla con ciò che avevo appreso a scuola. Era un lavoro pratico, presso un supermercato. Non era complicato. Forse un po' faticoso, ma comunque mi dava da vivere. Dopo aver accumulato un po' di soldi, infatti, mi diede la possibilità di affittare un piccolo appartamento, così da vivere da solo.
Finalmente stavo bene! Mangiavo ciò che volevo e non dovevo preparare pranzi per nessuno. Non dovevo niente a nessuno e nessuno mi doveva niente, eccetto i miei genitori, ovviamente. Ogni tanto, infatti, andavo a trovarli, o li invitavo da me (quelle volte ordinavo sempre d'asporto!).
Avevo una vita tranquilla e abbastanza serena. Forse un po' in ombra, però mi piaceva. Tutto mi sembrava procedere alla perfezione, finché non ho incontrato lei.

Continua...

giovedì 21 aprile 2011

Li amò sino alla fine

"Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv, 13, 1).
Il Giovedì Santo, di solito, lo si ricorda come il giorno della lavanda dei piedi. Gesù lava i piedi ai suoi discepoli, in un gesto di umiltà e di grande amore. Poi la reazione di Pietro che, almeno a me, fa sempre un po' sorridere. "'Non mi laverai mai i piedi!'. Gli rispose Gesù: 'Se non ti laverò, non avrai parte con me'. Gli disse Simon Pietro: 'Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo'".
Ma oggi, mi colpisce un'altra cosa. Poche parole, dette dall'evangelista, prima ancora di parlare del gesto di Gesù: "li amò sino alla fine".
Poche parole che rivelano una grandezza infinita, l'amore eterno di Dio. Gesù non abbandona, non si arrende e non trascura nessuno dei suoi amici. Sa che sta per essere tradito da Giuda, che sta per essere catturato e poi messo in croce. Sa tutto questo, ma non si lascia fermare. Fino all'ultimo pensa ancora ai suoi amici, al prossimo, a noi.
Da questo scaturisce la lavanda dei piedi, da questo ci sarà la preghiera nell'orto degli ulivi, da questo le preghiere sulla croce e le ultime parole a Maria e a Giovanni. Da questo, poi, si ha il culmine del mistero della Croce, della Sua morte e risurrezione.
Un amore eterno: ci precede dall'eternità, ci tocca nella nostra breve esistenza e prosegue ancora dopo di noi, "sino alla fine", cioè per sempre. Scrive Kierkegaard: "Ammettiamo che un uomo, umanamente parlando, ami Dio con rettitudine di cuore; ahimè, Dio lo ha amato per primo, Dio lo precede di un'eternità - così indietro resta l'uomo".
Oggi, in modo particolare, penso che ci venga ricordato tutto questo. Oggi, che inizia il triduo pasquale che culminerà tra la notte di sabato e domenica. Oggi, che stiamo per rendere nuovamente vivo e presente quel mistero così grande che è il centro e il culmine della vita del cristiano.


lunedì 17 gennaio 2011

Notte taciturna

Notte taciturna,
perché così immobile?
Spero,
aspetto
e tremo.
Non ti disturbo per timore.
Notte indefinita,
quando sei iniziata?
Ripenso al tempo,
al tuo tempo,
notte senza fine.
Cosa vuoi da me?
Solo una stella chiedo.
Una stella di sonora luce.

giovedì 23 dicembre 2010

Buon Natale!

Questo semestre, in università, ho seguito un corso di letteratura italiana. Nella seconda parte abbiamo parlato di favole (non fiabe), apologhi e bestiari. Ispirato dai testi letti, ho scritto una breve storia di Natale. La definirei come una favola o un apologo, anche se forse vuole semplicemente essere un racconto. Per chi si chiedesse cos'è un apologo, è un racconto con alla fine una morale esplicita o implicita. Beh...non aggiungo altro, se non: attenti alla differenza tra natale e Natale! Buona lettura!

Il lupo a Natale

La vigilia di Natale, il lupo famelico decise di andare a comprare i regali per i suoi lupetti. Scese così in città, pronto a fare delle tranquille spese, in quel gioioso giorno in cui era pronto ad abbandonare la sua voglia di cacciare e ingannare.
Una volta arrivato, si diresse subito nel grande centro commerciale. Fuori, una povera donna, porgeva la mano, sperando in una elemosina. Il lupo, vedendola, si impietosì e le diede qualche monetina. La donna lo ringraziò calorosamente. Mentre entrava, il lupo sentì le altre persone borbottare e lamentarsi di quella signora che elemosinava fuori dalla porta. "Non dovrebbero farla stare qui!". "Rovina l'atmosfera natalizia!".
Il lupo, perplesso, proseguì. Cominciò a guardare i vari negozi del centro commerciale. Superò quello di articoli sportivi, quello di videogiochi e quello di vestiti, fino a che non arrivò davanti ad un negozio di giocattoli. Appena entrato, però, il lupo si spaventò! Il locale era gremito di gente che arraffava, comprava e letteralmente lottava per guadagnare l'ultimo gioco o semplicemente un posto in fila. Era un vero delirio!
Il lupo, però, pensò che era comunque la vigilia di Natale, e sicuramente la gente era davvero più buona. Così, tranquillamente, si mise a guardare i vari scaffali. Ad un certo punto, vide un bellissimo pupazzo a forma di maialino! Era perfetto per il suo primo lupetto! Si avvicinò così per prenderlo e guardarlo, quando, un secondo prima che la sua mano lo afferrasse, una signora lo anticipò e lo guardò dritto negli occhi, con uno sguardo famelico e gli disse: "L'ho preso prima io, quindi è mio". "Un perfetto sillogismo!", pensò il lupo, che era un po' ignorante e ingenuo.
Non avendo più il pupazzo, guardò ancora tra gli scaffali, convinto di trovare un regalo migliore. Trovò, infatti, un pupazzo, più grande del precedente, a forma di agnellino. "E' stupendo!", pensò. Si avvicinò così per prenderlo. Ne erano rimasti soltanto due. "Questa volta non mi anticiperanno", si disse il lupo. Così si avvicinò e lo prese in mano. Era molto soffice e caldo. La lana dell'agnello era stata ricreata in maniera perfetta, secondo il lupo. E lui, di agnelli, se ne intendeva davvero!
Era già convinto di prenderlo, quando due uomini gli si avvicinarono. "Compri l'agnello, eh?" chiese il primo. "Sì!" rispose soddisfatto il lupo. "Grave errore, amico mio" commentò il secondo, scuotendo la testa. "Perché?" domandò preoccupato il lupo. "L'anno scorso un mio amico lo comprò, e dopo un giorno i suoi figli già non lo volevano più! L'ha dovuto buttare via subito!" spiegò il secondo. Il lupo, col dubbio insinuatogli dall'uomo, si convinse che stava comprando la cosa sbagliata, così ripose l'agnello sullo scaffale e si allontanò sconsolato, ringraziando i due uomini, augurando loro buon Natale.
Il lupo, senza più idee per i regali, girò un'altra volta tra gli scaffali, senza trovare più nulla. Ad un certo punto, però, vide alla cassa i due uomini di prima, entrambi con un agnello sotto il braccio, che lo compravano soddisfatti. A quella vista, il lupo non resse più, e cominciò a chiedersi che senso avesse tutto questo. Aspettò i due uomini. Li fermò e chiese loro: "Perché prima me l'avete sconsigliato e adesso lo comprate". "Amico...è natale! Qualche regalo dobbiamo pur farlo, no?" risposero. Poi se ne andarono ridendo dell'ingenuità del lupo.
Il povero animale, lasciato solo, ingannato, raggiunse il suo limite. Abbandonò lo spirito natalizio che tanto lo aveva affascinato, abbandonò il proposito di essere buono e riprese il suo aspetto da lupo. Lanciò un possente ululato che riecheggiò per l'intero centro commerciale, digrignando i denti in una terribile espressione di furia.
Quasi nessuno, però, si voltò. Solo una signora lo guardò e commentò ad alta voce: "Ecco la solita crisi natalizia! Ah, questa gente che non pensa prima a che cosa comprare!". Subito dopo, una commessa si avvicinò al lupo, pregandolo di uscire dal negozio. Colto alla sprovvista, l'animale uscì, perdendo quell'espressione di rabbia,
Una volta nel corridoio del centro commerciale, solo, disprezzato e senza regali, il lupo si chiese se davvero era Natale. Sconsolato, si avviò così verso casa, a mani vuote. Sulla strada del ritorno, trovò un macellaio. Vi entrò, comprò un po' di carne, se la fece impacchettare per bene, e decise di regalare quella ai suoi lupetti. Mentre tornava, pensava: "Ho smesso di cacciare, e subito sono diventato preda, ho smesso di ingannare e subito sono stato ingannato! Chi è l'animale, allora?". Una volta a casa, il lupo festeggiò con i suoi lupetti e passò un buon Natale. Già a Santo Stefano era tornato quello di sempre, pronto a cacciare e a terrorizzare la gente.

Tanti auguri a tutti di buon Natale e felice anno nuovo!